Roberto Gatto
Villa Celimontana, Roma 02 settembre 2001.

Ancora una volta ci troviamo insieme ad un grosso personaggio, ma questa volta non parliamo di nomi difficili da pronunciare, non dobbiamo guardare per forza lontano. Uno dei più grandi batteristi jazz d’Europa è italiano e si chiama Roberto Gatto. Roberto, oltre ad essere molto simpatico e disponibile, è anche allegro, schietto e mostra anche nel suo modo di fare tutta la personalità che lo caratterizza dietro al suo strumento.

Nato A Roma il 6 ottobre 1958. IL suo debutto professionale risale al 1975 con il Trio di Roma (Danilo Rea, Enzo Pietropaoli). Ha suonato in tutta Europa e nel resto del mondo con i suoi gruppi ed insieme ad artisti internazionali. Le formazioni a suo nome sono caratterizzate, oltre che da un interessante ricerca timbrica, e un impeccabile tecnica esecutiva, da un grande calore tipico della cultura mediterranea. Questo fa sicuramente di Roberto Gatto uno dei più interessanti batteristi e compositori in Europa e nel Mondo.

Vediamo cosa ci ha raccontato di lui.

Planet Drum– Tutti i batteristi, ma soprattutto i jazzisti avvertono il problema dell’accordatura e del sound, non del tutto tradizionale, che la loro batteria deve tirar fuori. Puoi parlarci di come accordi la tua batteria?

ROBERTO GATTO – La mia batteria ha una accordatura abbastanza alta, ma nel mio caso anche abbastanza variabile. Ultimamente sto suonando con un’accordatura alta. Bisogna però fare molto affidamento alle orecchie, non c’è nessuna chiave, nessun trucco per accordare la batteria, ti parlo dal punto di vista jazzistico, soprattutto la cassa piccola, non avendo il classico buco davanti con le due pelli devi abituarti a suonare come se avessi un timpano al posto della cassa vera e propria. Infatti, molto spesso, e tu che sei fonico saprai meglio di me che, quando si trova ad amplificare una cassa da 18, tipo quella che sto suonando io questa sera senza il buco, i fonici meno esperti gli vengono i capelli dritti perché non sono abituati a sentire questo suono. Ma in realtà è molto bello e bisogna saperlo gestire, in ogni caso bisogna conoscere il suono del jazz anche dai dischi che riproducono quel tipo di suono.

Planet Drum – Quindi ritieni che sia più importante il sound che il batterista avverte dentro piuttosto che quello che i fonici preferiscono!

ROBERTO GATTO – Assolutamente si!

Planet Drum – Puoi riassumere i momenti fondamentali della tua carriera?

ROBERTO GATTO – Io ho iniziato a suonare perché mio zio era, in Italia, un’importante batterista tra gli anni 60/70. Era un turnista, e suonava con gruppi rock e cantanti italiani, insomma, ha fatto diverse tournee. Quindi è stato attraverso la spinta e, ovviamente il fatto di vedere suonare lui, che mi sono innamorato dello strumento. Egli mi ha comunicato questa forte voglia di suonare questo strumento. Io ho sempre detto che è uno strumento che attrae in tenerissima età, e lo vedo con i bambini, con mio figlio, non si sa per quale motivo, sarà un fatto propriamente fisico, sarà il fatto che diverte subito e appassiona, sarà che chiunque è in grado di percuotere e, magari di generare una sorta di ritmo, il fatto è che l’approccio è molto istintivo. Questo significa che la batteria è uno strumento istintivo, quasi cromosomico e mai come nella batteria può uscire un grande talento.

Planet Drum – Quando hai iniziato con la batteria?

ROBERTO GATTO – Io ho cominciato così, con la batteria di mio zio. Era una Ludwig modello ovviamente RINGO STAR, all’epoca era nuova, non c’erano tanti strumenti di pregio, nel jazz c’era la Gretsch, ma io quando ho cominciato non suonavo jazz di conseguenza la Gretsch per me era sconosciuta. Perciò ho continuato con quella di mio zio fino a quando feci pressioni alla mia famiglia per avere uno strumento mio, e cosi arrivò una batteria giapponese, una Kingston, avevo 16 anni. Ricordo che prima di questa avevo dei pezzi sfusi di una batteria italiana. Era madreperlata o brillantinata rossa, forse, un’Alberti o una Loi secondo me degli anni 50, con una cassa un tom e rullante. Finalmente all’età di 18anni arrivò una Gretcsh-jazz set, una batteria assolutamente impensabile per quegl’anni. Ce n’erano pochissime anche in Italia. Strumento comprato da Musicarte storico negozio di Roma Io gia mi ero spostato verso il jazz e seguivo grandi batteristi come Melvin Jones, Tony Williams, questi batteristi suonavano sulla Gretsch, per cui per me possederne una era un mito. Avevo la cassa da 45, un tom, un timpano, è stata la batteria dei miei sogni. Comprata nel 70, è stata la prima batteria di una lunga serie di batterie vintage che ho collezionato negli anni perché, non ho mai smesso la mia passione per gli strumenti d’epoca. Anche per i piatti ho lo stesso tipo di passione. Attualmente colleziono 17/18 batterie tutte molto pregiate, una serie di Gretsch piccole, una degli anni 70, una del 59, una del 63, una vecchissima Rogers del 60, un paio di Ludwig, una Haiman. Una particolarità di tutte queste batterie e che hanno la cassa piccola. I piatti, anche lì colleziono vecchi piatti in generale. Ho dei vecchi Zildjan, Avedis, ma soprattutto K Zildjan turchi molto difficili da trovare. La particolarità di questi piatti è che suonano meglio per il jazz, sono piatti molto leggeri in generale, molto scuri, ovviamente per suonare jazz sono l’ideale tant’è che grosse ditte come la Zildjan, la Paiste hanno cercato di simulare questo tipo di suono facendo piatti che potevano somigliare a quelli vecchi, e devo dire che sono riusciti ad arrivare abbastanza vicino a quello che era il segreto. Roberto Spizzichino è uno che conosce questo segreto, fabbrica piatti e cerca di riprodurre, devo dire con ottimi risultati, quel suono. Ma abbiamo stabilito che alla fine sono gli anni ad imprimere l’originalità e la qualità del sound ad un piatto. Ad un materiale nuovo non gli puoi attribuire la vecchiaia. Quando un piatto ha 60, 70 anni ed ha suonato talmente tanto che si è assestato ed è talmente sporco di polvere, d’umidità, di sudore delle mani, è lì che ha trovato il suo top di sonorità; sono cose che al piatto moderno non si possono chiedere.

Planet Drum – Come sono stati i tuoi studi?

gatto2ROBERTO GATTO – I miei studi sono stati da autodidatta fondamentalmente fino a 18/20 anni. Poi ho avuto una breve parentesi con in maestro Vincenzo Vespucci ma, l’ho fatto più per i miei genitori, per dare loro l’idea che stavo facendo le cose seriamente, perciò andai dal maestro soprattutto per imparare a leggere, visto che fino a quel momento avevo già suonato molto ma non mi rendevo conto di cosa stessi facendo. Suonavo e basta. Vivevo di rendita per quanto suonavo. Se suonavo molto mi sentivo molto allenato, se suonavo poco l’autonomia si riduceva. Sfortunatamente non ho più 20 anni, ma ne ho quasi 43, bercio i muscoli, e non solo, ma anche il cervello, non rispondono più come una volta, di conseguenza faccio più fatica a ringranare. Fortunatamente da un po’ d’anni mi capita di non stare tanto tempo senza suonare e di lavorare molto e quindi me la cavo bene.

Planet Drum – Allora, vedendoti suonare, possiamo anche affermare che non solo studiando si diventa grandi!

ROBERTO GATTO – Spero di si, vedi la passione e la dedizione sono elementi fondamentali.

Planet Drum – Con gli strumenti elettronici che rapporto hai?

ROBERTO GATTO – Ho avuto una parentesi nella meta degli anni 80. Ero abbastanza attratto de queste prime batterie synth tipo Simmons, Yamaha, ed i vari suoni digitali. In quel periodo ero legato all’elettronica perché suonavo con un gruppo che si chiamava i Lingomania con un sound jazz ma elettrico. io usavo questo tipo di batteria come percussioni oltre al set tradizionale, mi piaceva avere dei suoni che riproducevano un po’ le percussioni e i suoni etnici. A parte quell’esperienza lì, non ho fatto nient’altro. Mi piace molto l’elettronica, ma non nella percussione, mi piace ma non da sostituire il mio strumento. Mi piacciono questi gruppi moderni che usano l’elettronica in maniera intelligente, questi gruppi underground newyorkesi fanno parecchio uso di loop e d’elettronica in generale, ma bisogna ricordarsi che anche il loop ormai è finito. Vorrei citare ad esempio A.Lindsey, lui è un musicista underground di New York che ha collaborato con Gaetano Veloso. E’ uno che usa un set-up live, con basso e batteria veri ma ha anche un tastierista che è anche un manipolatore di suoni, per cui partono questi loop, questi suoni o rumori, è molto bello su ritmi funk ma anche bossa-nova ecc…. I Depeche Mode anche mi piacciono, insomma ci sono dei musicisti che usano l’elettronica in modo intelligente.

Planet Drum – Hai dei progetti per il tuo lavoro futuro?

ROBERTO GATTO – Con l’elettronica? Mi piacerebbe ma non so da che parte cominciare. Secondo me la cosa migliore è trovare delle persone che lavorano in quest’ottica, anche giovani perché la musica tutto sommato è molto in mano ai giovani e alla nuova generazione, io mi sento gia vecchio da questo punto di vista. Potrebbe nascere solo da un incontro con questi musicisti ma anche operatori nel campo della musica e della manipolazione del suono elettronico, questa musica è in mano a loro, a questi deejay più intraprendenti. In America ci sono dei personaggi abbastanza importanti come “Deejay scooby”o “Deejay Logic”, sono dei musicisti che usano dischi in maniera abbastanza fantascientifica, sono il top che c’è adesso in America per questo genere di cose.

Planet Drum – Preferisci lavorare in studio o live?

ROBERTO GATTO – No, io faccio molto poco studio, ne ho fatto in passato ma di solito la mia attività è prettamente live. Mi e capitato recentemente di lavorare in studio con Ivano Fossati, ho fatto il disco nuovo con lui, ho collaborato con Pino Daniele, ma sono sempre episodi sporadici. La cosa che mi piace è che quando vengo coinvolto da questi musicisti, in questo momento della mia carriera, è perché vogliono in realtà il mio suono, il suono che ho dal mio strumento, devono sinceramente volere Roberto Gatto come musicista che da un contributo. Se devo suonare come un musicista da studio, che è senz’altro più esperto di me, conosce più trucchi e tecniche è chiaro che non c’è storia ma, suonare alla mia maniera, all’interno di progetti come quelli che mi sono capitati è chiaro che allora mi diverto.

Planet Drum – Perciò vedi una differenza tra suonare in studio e dal vivo?

ROBERTO GATTO – Sicuramente, poi per lo studio come lo intendiamo in Italia! Attenzione perché è già un’altra cosa di come lo intendono gli americani o gli inglesi, gli inglesi non si creano problemi, se vogliono caratterizzare un loro lavoro attraverso determinati musicisti non si fanno problemi se va a tempo o non va a tempo, se suona sul click o no, prendono il meglio. Il grande maestro di tutta questa filosofia è Peter Gabriel che è stato poi sempre l’unico a fregarsene di questi problemi. In Italia abbiamo questa mentalità che se un musicista non ha un suono stereotipato, non sa suonare sul click in un certo modo non è abile a fare lavori in studio.

Planet Drum -E’ per questo forse, e ti parlo da fonico live, che noto che gli artisti italiani rendono molto di più dal vivo che in studio!?

ROBERTO GATTO – Si perché si tende, come dire, a schiacciare la personalità dei musicisti che stanno suonando dietro all’artista, al cantante o al gruppo. Chi c’è non è un problema, o uno o l’altro, per il cantante non fa differenza, lui vuole avere una base solida che cammini che funzioni. Invece quando hai davanti un artista vero, secondo me, mette da parte tutti questi problemi e prende musicisti che danno valore alla sua musica. Qui tutti i nostri cantanti sembra che hanno quasi paura di misurarsi con i musicisti di carattere, che possono tirare fuori la vera anima, e allora si rivolgono sempre ai soliti musicisti che suonano e stanno zitti, fanno il loro lavoro, perfetto, da professionisti e non creano problemi. Io la vedo così.

Planet Drum – Per concludere con Roberto Gatto gli chiediamo un suggerimento per i giovani Che vogliono intraprendere la professione di batterista. gatto

ROBERTO GATTO – Ahe! (Esclamazione tipica) io mi sento di dire quello che poi è la mia filosofia, cioè di suonare la musica con grande divertimento perché è probabilmente il lavoro più bello del mondo. Suonare senza crearsi il problema del lavoro, suonare per suonare, e poi… poi le aspettative sono tradite spesso. Se uno invece decide di iniziare a coltivare questa passione ed essere se stessi, è fondamentale non copiare, sentire tutti ma non copiare nessuno, essere curiosi sentire tante cose, cercare musica d’ogni genere, arricchirsi il più possibile e poi dopo fare una scelta. Io ho smesso di insegnare da diversi anni perché l’interesse verso il jazz da parte dei giovani era decisamente inferiore al rock, ma non solo rock come quello che ascoltavo io, ma al metal, dove effettivamente la batteria ha un ruolo che, secondo me, è assolutamente poco significativo se non quello di dare un grande traino in termini di groove, ma per il resto è uno strumento che ha grandi potenzialità e lì non escono. C’è la tendenza di appassionarsi molto al rock e di ignorare completamente quello che c’è stato nella batteria. Invece leggendo le interviste dei più grandi batteristi rock, a partire da John Bonham a Terry Bozzio ai Guns’n Roses, parlano tutti del jazz, dei grandi batteristi jazz e degli studi di Buddy Rich di Elvin Jones, tutti hanno studiato o comunque sono cresciuti con la batteria jazz. Gli ha tirato fuori il meglio, il virtuosismo l’eleganza, lo stile la tecnica vera. Mi piacerebbe che uscisse di più questa cosa e che i batteristi giovani si rendessero conto di questo e andassero a cercare anche questi batteristi storici e poi fare una scelta, scegliere di suonare ognuno la musica che vuole.